“Libri e libertà” Venezia, Isola di San Giorgio Video

Testo completo dell'intervento di Vito alla fondazione Giorgio Cini di Venezia, nell'ambito del XXIX Seminario di perfezionamento della scuola per librati Umberto ed Elisabetta Mauri Sala di San Giorgio Maggiore.

"Libri e Liberà" Venezia 27 Gennaio 2012 PDF

L’assonanza libri-libertà che l’italiano deriva dal latino dove è ancora più intensa (liber-libertas) è il tema che la “Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri” mi ha dato l’onore e l’onere di sviluppare a conclusione di questo XXIX Seminario di Perfezionamento. Dico l’onore in riferimento al prestigio di questa iniziativa, al luogo in cui si celebra e ai nomi illustri che qui mi hanno preceduto. E dico l’onere in considerazione dell’ampiezza e della profondità del tema e del pubblico esigente di fronte a cui devo parlare.
Pensando a libri e libertà si presentano alla mia mente una serie ricca e confusa di suggestioni. La prima è legata al luogo in cui ci troviamo, l’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, che a me, in quanto teologo e scrittore chiamato a riflettere su libri e libertà, richiama l’enciclica di Pio VII Diu satis videmur (letteralmente: “A lungo abbastanza ci sembra”), scritta e pubblicata proprio in questo luogo il 15 maggio 1800. Il papa si trovava qui a San Giorgio perché qui si era tenuto il conclave che due mesi prima l’aveva eletto, dato che Roma era occupata dalle truppe napoleoniche. In questa sua prima enciclica Pio VII prende posizione a proposito di libri e libertà con queste precise parole: “La salute stessa della Chiesa, dello Stato, dei Principi e di tutti i mortali, salute che dobbiamo considerare molto più cara e più importante della nostra vita, esige che questo potere sia tutto da Noi esplicato nel distruggere quel mortale flagello dei libri (peste librorum) … E non parliamo soltanto di strappare dalle mani degli uomini, di distruggere completamente bruciandoli quei libri nei quali si avversa la dottrina di Cristo apertamente; ma anche e soprattutto bisogna impedire che arrivino alle menti e agli occhi di tutti quei libri che operano più nascostamente e più insidiosamente (…) Su questo punto, venerabili fratelli, non possiamo chiudere gli occhi, né tacere, né essere troppo indulgenti.” (Enchiridion delle Encicliche, vol. 1, n° 782-783). 

 

Sono parole che rimandano alla lunga e complessa storia del rapporto tra potere ecclesiastico e libri, che trova il suo culmine nei numerosi roghi di libri lungo i secoli e in quell’immenso rogo metaforico che è stato l’Index Librorum Prohibitorum, istituito da Paolo IV nel 1558 e abolito da Paolo VI nel 1966, dopo 408 anni di attività e 32 edizioni, l’ultima della quale sotto Pio XII nel 1948. Ma visto che ci troviamo a Venezia, è doveroso ricordare che in Italia la prima edizione dell’Indice dei libri proibiti non si ebbe a Roma, ma proprio qui a Venezia, nove anni prima, nel 1549, e solo in seguito la Roma pontificia acquistò il copyright di questo poco esaltante genere editoriale. Ha quasi dell’incredibile infatti vedere quanti e quali libri siano stati proibiti alla lettura dei cattolici, pena la scomunica latae sententiae, in ogni ambito del sapere: letteratura, filosofia, scienza, diritto, economia, ma soprattutto teologia, esegesi biblica, storia della Chiesa, spiritualità. La principale vittima dell’Indice infatti è stata la cultura cristiana, prova ne sia la messa all’Indice di decine di edizioni della Bibbia, manuali di esegesi, grammatiche ebraiche e greche, persino le concordanze greche del Nuovo Testamento. Il vertice di questo meccanismo autoritario ed ignorante furono le condanne di Antonio Rosmini (beatificato nel 2007), di Savonarola (causa di beatificazione in corso), di Pascal e Fénelon (autori spirituali tra i più letti), di suor Faustina Kowalska (canonizzata nel 2000), della prima monografia su Padre Pio (canonizzato nel 2002).

L’Isola di San Giorgio Maggiore però, per quanto attiene al rapporto libri e libertà, non è certo riducibile alla Diu satis videmur. Basta ricordare che ci troviamo nella sede della Fondazione Cini e che a poca distanza da noi si trova la Nuova Manica Lunga, l’antico dormitorio dei monaci benedettini progettato dall’architetto Giovanni Buora all’inizio del Cinquecento, e ora cuore del complesso bibliotecario della Fondazione Cini a seguito della riqualificazione curata da Michele De Lucchi, con centinaia di migliaia di volumi sulla storia dell’arte, la storia di Venezia, la letteratura, la musica, il teatro. Meno che mai Venezia, per quanto attiene alla sua immensa storia a proposito di libri e libertà, è riducibile alla prima edizione dell’Indice, basti pensare che qualche decennio prima grazie ad Aldo Manuzio qui a Venezia era nata l’editoria moderna. Impossibile al riguardo non menzionare Erasmo da Rotterdam che con Manuzio qui a Venezia collaborò tra il 1507 e il 1508, simbolo di quel cristianesimo umanistico e amante della libertà, che si differenzia sia dall’autoritarismo delle bolle papali sia dal letteralismo di tendenza protestante che fa della Bibbia un “papa di carta”. L’amore per la libertà si tradusse in Erasmo nella cura per i libri, in primo luogo nell’edizione critica del testo greco del Nuovo Testamento pubblicata a Basilea nel 1516 presso l’editore Johann Froben.

Chi ama la libertà ama i libri e la loro esattezza; viceversa chi non ama la libertà non ama i libri e tanto meno ne cura l’esattezza. Tra filologia e libertà la parentela è stretta, come ha messo acutamente in rilievo Luciano Canfora (Filologia e libertà, Mondadori 2008). Questo legame tra libri e libertà fa sì che ogni forma di potere totalitario dedichi sempre molta attenzione al controllo della cultura, perché avverte che è anzitutto lì la principale insidia, il luogo dove può generarsi la scintilla della rivolta. Io mi sono limitato al potere ecclesiastico per motivi legati alla mia preparazione e al fatto che qui a San Giorgio papa Pio VII scrisse quelle parole poco benevoli verso i libri che vi ho letto (peste librorum), ma so bene che ogni totalitarismo ha avversato la libertà di stampa e di lettura, a prescindere dall’impalcatura ideologica del suo potere, sia essa cattolica, o protestante (Michele Serveto venne fatto bruciare vivo da Calvino a Ginevra il 27 ottobre 1553 con il suo libro De Trinitatis erroribus legato alla coscia), oppure sia essa atea comunista o atea nazifascista o fondamentalista islamica o qualunque altra tipologia di totalitarismo.

In questa prospettiva ricordo il poeta inglese John Milton, che nel 1644 scrisse l’Areopagitica, uno degli scritti più vibranti in favore della libertà di stampa, dove si leggono queste parole rivolte al Parlamento d’Inghilterra che stava per introdurre una legge sulla censura e la distruzione dei libri: “È quasi uguale uccidere un uomo che uccidere un buon libro. Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua stessa essenza” (ed. it. p. 11).

A proposito di parlamenti e di leggi mi sorge spontaneo a questo punto porre un interrogativo che prende spunto dalla data odierna, 27 gennaio, scelta dai Parlamenti di molti paesi, tra cui quello italiano, per celebrare la Giornata della Memoria in ricordo dello sterminio del popolo ebraico da parte dell’odio nazista. Ho parlato di libri e libertà e ho criticato senza mezzi termini la censura da parte del potere. Ma come comportarsi con gli scritti dei negazionisti? È noto che vi sono libri, articoli, siti web che sostengono che le camere a gas non sono mai esistite e che la Shoà è solo un’invenzione degli ebrei a scopo politico, una sorta di mito fondatore dello stato di Israele. Mi chiedo se nel nome della libertà di opinione si debbano tollerare questi mentitori che sanno di mentire. Noam Chomsky, ebreo americano, icona della sinistra progressista, ritiene che ognuno debba essere libero di pubblicare sempre e comunque le sue idee, al punto che alcune sue pagine al riguardo fanno da prefazione al libro di uno più noti negazionisti, il francese Robert Faurisson, dal titolo Mémoire en Défence. La question des chambres à gaz (La vieille taupe, 1980). Io rimango nell’incertezza, vedo argomenti a favore della censura e altri di segno opposto.

Erano più o meno questi temi (l’isola di San Giorgio Maggiore, Pio VII, l’Indice dei libri proibiti, Venezia, Manuzio ed Erasmo, il 27 gennaio giornata della memoria, e altri di cui non ho parlato per motivi di tempo, tra cui desidero almeno menzionare Paolo Sarpi) che mi si agitavano nella mente la mattina in cui avevo iniziato a riflettere su queste cose nella mia nuova casa di Bologna, la città, a proposito di libri e libertà, del Liber Paradisus, il libro della legge del 1256 con cui il comune di Bologna, primo in Italia, proclamava l’abolizione della schiavitù e la liberazione dei servi della gleba. A partire dal fatto che la mia casa odierna è piena di libri e che stavo riflettendo sui libri per parlarne a librai, mi venne di considerare la casa di quand’ero bambino. Lì di libri non ce n’erano molti, i primi di cui ho ricordo sono i due di testo delle elementari (libro di letture e sussidiario) e prima ancora il libricino di preghiere di mia madre. La mia famiglia però fu sempre consapevole dell’importanza della cultura e vi investì con determinazione facendo entrare in casa non poche enciclopedie. La prima in assoluto fu un cofanetto di tre volumi intitolati Dizionario del sapere. Enciclopedia moderna, a cura di M. G. Bacci, Aristea, Milano 1965: il primo volume era verde e andava dalla A alla L, il secondo, rosso, dalla M alla Z, il terzo, blu, era un dizionario della lingua italiana. Poi fu la volta dell’enciclopedia illustrata Conoscere dei Fratelli Fabbri, 16 volumi rilegati di tela rossa con la sovraccoperta nera su cui campeggiavano in primo piano una Madonna e un astronauta. Arrivava a casa un volume al mese e io, allora ai primi anni delle elementari, quando tornavo da scuola e lo trovavo neppure più volevo mangiare tanto ne ero rapito, così che mia madre prese l’abitudine di consegnarmi il nuovo arrivato solo a pranzo ultimato. Poi arrivò l’Enciclopedia delle Scienze per i Giovani di Federico Motta in 20 volumi, con in omaggio un microscopio; poi I Quindici (che però non ho mai amato) e ancora altre enciclopedie, dizionari, romanzi. L’apoteosi la toccai quando, a seguito degli esami di terza media, mio padre mi regalò i 12 volumi della Storia del Mondo moderno della Cambridge University Press, pubblicata in Italia da Garzanti. Avendola pagata in contanti, ricevemmo in omaggio una trentina di “Grandi Libri Garzanti”, tra cui Omero, Shakespeare, Puškin, Gogol, Gončarov, Stendhal, Flaubert, Maupassant, Henry James, Melville e anche la Storia delle mie disgrazie e le lettere d’amore ad Eloisa del teologo medievale Pietro Abelardo. Ricordo tutto questo per dire che posso testimoniare sulla mia pelle, a partire dalla storia della mia famiglia, il legame tra libri e libertà: libertà della mente, capacità di riflessione e di giudizio autonomo, tutto questo è ciò che consegna la lettura a chi vi si dedica.

Non vorrei però mitizzare il libro, né la lettura e meno che mai gli autori. Sono anzi consapevole che il libro può diventare persino una grande prigione per l’ego di chi lo scrive perché lo potenzia in grado notevole. Ogni pubblicazione contiene una certa dose di narcisismo, e per la libertà non c’è pericolo più grande del narcisismo, perché la libertà più difficile da ottenere è quella da se stessi. Spesso, per capire il grado di narcisismo di un autore, è sufficiente un’occhiata alla scrittura. Da essa è possibile vedere quanto l’autore intenda sedurre, cioè portare il lettore verso di sé facendolo stupire, se non stordire, ed esclamare “com’è bravo costui, quante cose che sa”; e quanto invece intenda condurre, cioè accompagnare il lettore verso qualcosa di più grande di sé, verso l’onestà del reale. Quello che voglio dire è che anche i libri sottostanno all’inquietante ambiguità che connota ogni azione e ogni pensiero dell’uomo. Ciò che salva, permettendo almeno qualche volta di uscire da questa ambiguità, non sono i libri, è la verità della vita. I libri sono buoni e salvifici nella misura in cui sono al servizio della vita, mentre sono nocivi se l’occultano o la distorcono. Molto meglio un uomo schietto e onesto anche se analfabeta, che non un erudito che ha letto migliaia di libri in decine di lingue per finire prigioniero della sua alterigia e supponenza. All’inizio del genere umano i libri non c’erano, la libertà e la schiavitù del cuore però esistevano già. Poi arrivarono i libri scritti a mano su papiro a forma di rotolo, poi quelli su pergamena a forma di codice, e la libertà e la schiavitù del cuore aumentarono in proporzione al loro diffondersi. Quando comparvero i libri stampati su carta con una diffusione enormemente superiore, la libertà e la schiavitù aumentarono ancora, sia la schiavitù sia la libertà, dando infine origine a quella miscela esplosiva che è stato il ‘900. Che cosa sarà domani con la rapida diffusione del libro elettronico nessuno lo sa, se la libertà e la schiavitù del cuore saranno ancora in equilibrio nella loro lotta millenaria, oppure se una delle due alla fine prevarrà.

Quello che è certo, a mio avviso, è che in questo mondo che passa, e passando consuma ogni cosa; in questo mondo che ora fa gioire per il semplice fatto di esserci, ora gemere di rabbia e di dolore come schiavi alla catena; in questo mondo teatro dell’essere e del nulla, libera scelta e cieco destino, allegria della mente e disperazione dell’anima; in questo mondo di fantasmi e di poesia, non c’è nulla di più grande del bene e della libertà che vi si dedica. Se c’è una dimensione nella quale è possibile non dico superare, dico per lo meno sopportare, il fluire inesorabile di esseri viventi che nascono e muoiono, tutti necessariamente incatenati dalla brama di cibo e di orgasmo e di un posto sul palcoscenico per poter essere qualcuno e ricevere così la propria dose di applausi e di denaro, questa dimensione, sola possibile salvezza dai morsi della triplice catena, è il bene. Chi fa il bene si libera, almeno per un po’, dalla catena alimentare, sessuale e sociale; chi no, no. Rimane servo. Volendo sintetizzare in una formula l’unica possibile liberazione, parlo di bontà dell’intelligenza. Raramente le due cose si ritrovano insieme, spesso si hanno uomini buoni ma poco intelligenti, per cui non sai se la loro bontà non sia altro che debolezza; oppure uomini dotati di intelligenza ma senza il minimo scrupolo di farne uso per asservire e umiliare. Di contro io ritengo che la bontà che desidera la luce dell’intelligenza e l’intelligenza che desidera il calore del bene, l’unione di queste due dimensioni in ciò che chiamo bontà dell’intelligenza, sia il vertice sommo a cui la vita di un essere umano possa arrivare. Del bene e del suo primato i libri possono essere esaltazione o repressione. Oggi, 27 gennaio 2012, “giornata della memoria” in ricordo del 27 gennaio 1945 quando vennero aperti i cancelli di Auschwitz, non è difficile fare esempi del primo e del secondo caso, basta pensare al Diario di Anna Frank, al Diario e alle Lettere di Etty Hillesum, a Se questo è un uomo di Primo Levi, oppure, sul versante opposto, a Mein Kampf di Adolf Hitler e a tutte le pubblicazioni negazioniste. Nelle giornate ordinarie però è molto più difficile distinguere, e per questo, in conclusione, auguro a ciascuno di riuscire a scrivere (in quanto autore), a pubblicare (in quanto editore), a diffondere (in quanto libraio) e soprattutto a leggere in quanto lettore quei libri da cui si intravede qualche raggio della bontà dell’intelligenza.