Sabato sarà un giorno di grande gioia per la causa del Vangelo, ma per alcuni nella Chiesa anche di inevitabile vergogna. L’uccisione del sacerdote salvadoregno tra politica, invidie, pressioni, intrighi e dubbi
Sabato Oscar Romero, assassinato a San Salvador il 24 marzo 1980, viene beatificato e dichiarato ufficialmente martire della Chiesa cattolica. La domanda che sorge spontanea è come mai siano dovuti passare 35 anni perché il Vaticano giungesse a tale elementare riconoscimento, compiuto all’istante dalla coscienza popolare e dalla spiritualità mondiale. Qualcuno potrebbe pensare che la gerarchia cattolica ami procedere con i piedi di piombo, ma sbaglierebbe: per la beatificazione di Escrivá de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei, ci vollero solo 17 anni, per Karol Woityla sei. Quindi quando vuole il Vaticano sa accelerare: perché non l’ha fatto per Romero, ucciso mentre celebrava la Messa da un sicario dei cosiddetti “squadroni della morte” a causa del suo impegno per la giustizia?
Perché Giovanni Paolo II che celebrò ben 1341 beatificazioni (più di tutti gli altri papi della storia messi insieme) non beatificò Romero durante i 25 anni dal martirio di quest’ultimo alla sua morte nel 2005? Perché non lo fece Benedetto XVI? Di fronte al silenzio su Romero delle gerarchie ecclesiastiche padre Turoldo nel 1987 scriveva in polemica con Giovanni Paolo II del «silenzio che stazza sulla tomba del fratello Vescovo Oscar Romero, nuovamente ucciso da questo silenzio». La risposta comunque non è difficile: perché c’era di mezzo la politica, che purtroppo in Vaticano ha sempre importanza primaria, anche quando si tratta di santità …
Quando il 3 febbraio 1977 lo nominarono arcivescovo di San Salvador in Vaticano erano convinti di aver trovato la persona giusta per moderare l’impostazione troppo progressista data alla Chiesa salvadoregna dal predicente arcivescovo Chàvez y Gonzáles. Romero infatti, nato 59 anni prima in un paese di montagna, era un presule conservatore che diffidava di tutto ciò che avesse a che fare con il concetto di liberazione. Poi, però, qualcosa accadde. Nel libro Romero martire di Cristo e degli oppressi pubblicato dall’Editrice Missionaria il teologo gesuita Jon Sobrino parla di una “conversione” avvenuta il 12 marzo 1977: «Credo che l’assassinio di Rutilio Grande sia stato l’occasione della conversione; monsignor Romero conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un sacerdote esemplare e un amico… ma troppo politicizzato… credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero siano cadute le bende dagli occhi». Molti altri, tra cui Leonardo Boff ed Ettore Masina, forniscono tale lettura. Ma anche chi non ama parlare di conversione, come Roberto Morozzo della Rocca autore della più ampia biografia di Romero in lingua italiana (Primero Dios, Mondadori), non può evitare di notare che «Romero arcivescovo era diverso dal Romero precedente, questo è certo».
Conversione o no, sta di fatto che coloro che prima erano i nemici di Romero (la sinistra politica e la sinistra ecclesiastica dei gesuiti e del vescovo Rivera y Damas) divennero suoi amici, e viceversa coloro che erano i suoi amici (la destra politica e la destra ecclesiastica del nunzio e della maggioranza degli alti prelati) divennero suoi nemici. Così il nunzio e il cardinale guatemalteco Casariego si rammaricavano di averlo segnalato quale arcivescovo e inviavano a Roma velenosi rapporti. Da qui le pesanti pressioni subite da Romero nei tre anni di episcopato, tra cui una “visita apostolica” (espressione canonica che sta per ispezione ufficiale) condotta da monsignor Antonio Quarracino, poi arcivescovo di Buenos Aires e predecessore di Jorge Mario Bergoglio, che diede un parere molto negativo su Romero consigliando di affiancargli un amministratore apostolico sede plena, cioè praticamente di esautorarlo di ogni potere.
A quel tempo in Salvador oltre all’esercito e ai corpi di sicurezza, imperversavano gli squadroni della morte, gruppi paramilitari assoldati dall’oligarchia, ufficialmente illegali ma in realtà strettamente legati al potere. A sinistra operavano formazioni diverse, talora altrettanto sanguinose, poi confluite nel Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale. Tradizionalmente la posizione della Chiesa era di equidistanza, ma Romero, accortosi della connivenza tra esercito e squadroni della morte e del fatto che tale equidistanza finiva in realtà per privilegiare i potenti a scapito degli oppressi, ruppe questa politica, prese le distanze dal governo e arrivò persino, come fa notare Sobrino, a considerare legittima la violenza di autodifesa perché i cittadini «davanti a una situazione così iniqua, spesso si sono visti obbligati ad autodifendersi, anche in forma violenta» (Quarta lettera pastorale, n. 117). A Romero questa radicalità non era insolita, come appare nel libro pubblicato in questi giorni da Piemme, La giustizia non sta mai zitta, che presenta i suoi interventi più incisivi disponendoli in forma antologica.
Cinque giorni prima della morte Romero dichiarò al Diario di Caracas: «Destra significa nettamente l’ingiustizia sociale e quindi non è mai giusto mantenere una linea di destra». Ricordando tali parole, Sobrino cita anche queste altre: «Il Partito democratico cristiano si sta facendo complice dell’oppressione del popolo». Naturalmente tutto ciò fece di lui l’oggetto di un odio da parte delle oligarchie economiche, militari e anche ecclesiastiche. Le minacce di morte erano sempre più numerose, ma Romero rifiutò la scorta. Gustavo Gutiérrez, uno dei padri della teologia della liberazione, ricorda di avergli telefonato prima della morte: «Terminai la nostra amichevole conversazione con un’espressione forse ingenua, gli dissi: “Monseñor, devo andare. Abbi cura di te”; dopo un breve silenzio che a me parve lunghissimo rispose: “Gustavo, per aver cura di me dovrei andarmene dal mio paese”» (da Perché Dio preferisce i poveri, Editrice Missionaria). Romero sapeva bene che prima o poi l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Un giorno disse: «Se mi ammazzeranno, risusciterò nel popolo salvadoregno». È esattamente quello che avvenne.
Com’è stato possibile allora che per 35 lunghi anni si dubitasse che la sua morte fosse un martirio a servizio del Vangelo? Ha dichiarato monsignor Vincenzo Paglia, il postulatore della causa di beatificazione: «Romero ha avuto scontri con il nunzio, con il Vaticano, con i poteri locali che lo definivano comunista solo perché aveva scelto di sporcarsi le mani dedicandosi all’aspetto sociale del dogma». Ma che cos’è questo aspetto sociale del dogma? È il bene concreto, cioè l’unico vero senso del Vangelo, cui tutti gli altri sono funzionali. Che a essere contro Romero siano stati la destra e i militari per interessi economici e politici si spiega; ma che lo sia stata una parte della Chiesa, tra cui la maggioranza dei vescovi salvadoregni e a Roma i cardinali López Trujillo e Castrillón Hoyos, tanto potenti sotto Woityla e Ratzinger, è il segnale di qualcosa di strutturalmente pericolante nel sistema ecclesiastico. Sabato sarà un giorno di grande gioia per la causa del Vangelo, ma per alcuni nella Chiesa anche di inevitabile vergogna.
Vito Mancuso, la Repubblica 21 maggio 2015