L’enigma di un genitore. La recensione del prof. Vito Mancuso al nuovo libro di Massimo Recalcati
Essere figli, ovvero l’arte di vivere e di nutrire la vita: è questa la posta in gioco. Infatti ben prima di avere uno o più figli, a tutti si impone il fatto di essere figlio, di essere figlia, vale a dire di ricevere la vita, il corpo e il carattere da “Altro”, come scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro (“Il segreto del figlio”, Feltrinelli) usando sempre regolarmente la maiuscola. Qual è il senso di questa maiuscola? Nessuna somiglianza con il “totalmente Altro” mediante cui Rudolf Otto o Max Horkheimer alludevano al “Numinoso”, nulla a che fare con Dio. Tuttavia l’uso così reiterato del maiuscolo segnala pur sempre una trascendenza, il desiderio di indicare qualcosa di più grande di noi che ci attraversa e ci fonda nella nostra più intima identità. Vale a dire: la nostra più intima identità non è nostra. È Altro. Ecco il mistero, il segreto dell’essere uomini in quanto tutti inevitabilmente figli. Tutta la parabola della modernità occidentale è stata vissuta all’insegna dell’uscita dalla condizione di figlio su cui il cristianesimo aveva strutturato fino ad allora la coscienza occidentale: Dio come Padre e la Madonna come Madre, con tutta la storia dell’arte a testimone. Si pensi, di contro, alle celebri parole con cui Kant apre lo scritto sull’Illuminismo del 1784: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minore età». Ovvero l’uscita dalla condizione di figlio.L’Occidente non ha più voluto concepire la propria identità all’insegna dell’essere figlio e così la sua maggiore età ha coinciso logicamente con l’abbandono del Padre. Sto parlando della “morte di Dio”, proclamata prima sommessamente da Hegel con il saggio Fede e sapere del 1802, poi trionfalmente da Nietzsche con La gaia scienza del 1882. Il non voler più essere figli ha significato necessariamente la morte di Dio.
Ma la questione al centro del libro di Recalcati è la figliolanza e al riguardo io chiedo: è naturale, per chi è inevitabilmente e primariamente figlio, non riconoscere che la sua identità passa necessariamente dal rapporto di dipendenza in quanto rapporto con “Altro”? Non lo è, e forse il sempre più manifesto malessere che circonda l’esistenza occidentale dipende proprio dall’oblio della nostra condizione di figli. Anzi, forse con i nostri figli non sappiamo più avere un rapporto autorevole e che sia per loro realmente di guida (mentre indugiamo nella retorica del dialogo e dell’empatia così fortemente criticata da Recalcati) proprio perché a nostra volta non sappiamo più essere figli e rapportarci a un padre, cioè a una dimensione più importante di noi. La morte di Dio all’interno di una civiltà non è una cosa da poco e non passa senza conseguenze anche per le minute esistenze dei singoli.
Il punto non è certo il ritorno alla fede in Dio del passato, quanto piuttosto la necessità di una gerarchia mentale che faccia evitare quella «sorta di immedesimazione confusiva frutto di un’orizzontalizzazione del legame che smarrisce ogni senso di verticalità», con la conseguente «retorica pedagogica del dialogo oggi imperante». Il concetto centrale del libro infatti è che con i figli non si tratta tanto di dialogare e di cercare empatia, quanto piuttosto del «riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita altra, straniera, distinta, differente». Si tratta cioè di arrivare a comprendere che il figlio è «un mistero che resiste a ogni sforzo di interpretazione», è «un segreto indecifrabile che deve essere rispettato come tale». Parole antiche, che fanno venire in mente il Profeta di Gibran: «I vostri figli non sono i vostri figli… Essi non vengono da voi, ma attraverso voi, e non vi appartengono».
Ma la domanda è: la nostra cultura, così priva del senso dell’Altro e ossessionata dal desiderio di avere perché tutto ha un prezzo e si può comprare pagando (anche un figlio!), è in grado di concepire ancora il significato di termini come “mistero” e “segreto”, e di fermarsi con rispetto di fronte alla realtà indisponibile cui rimandano? Recalcati sostiene anche che essere figli significa essere eredi, il che comporta non solo ereditare dei beni ma anche costruirsi una propria e diversa identità perché «il figlio giusto è un erede, ma è anche sempre un eretico», non si limita cioè a ripetere il passato, ma lo riprende attualizzandolo originariamente nel suo presente. Si tratta quindi di evitare due estremi: da un lato ignorare completamente il padre, dall’altro rimanere appiattiti sull’identità paterna dimenticando che la condizione di figlio «esige sempre il diritto alla rivolta». Occorre avere un padre e al contempo superarlo, occorre avere un dogma e al contempo contestarlo, perché solo così si costruisce la personalità matura: mediante questo legame vero ma libero e creativo con il padre e con ciò che simboleggia in termini di passato, tradizione, autorità, legge. Appartenenza ed erranza. Ma perché questa delicata dialettica possa aver luogo, i figli, ben lungi dall’avere nei genitori dei comodi fornitori di servizi, «necessitano di trovare nei propri genitori degli ostacoli».
Quale tipo di ostacoli? Qui sta la differenza tra Edipo e il figlio ritrovato della parabola evangelica (tradizionalmente detto “figliol prodigo”) attorno ai quali è costruito il libro. Entrambi vivono l’esigenza insopprimibile di abbandonare la casa per costruirsi un’identità diversa da quella preparata per loro, ed entrambi iniziano il loro percorso con una trasgressione. Ma mentre nel caso di Edipo la legge del destino inesorabilmente si compie, nella parabola evangelica si assiste a un superamento della legge da parte del padre. Per favorire il compiersi dell’identità del figlio, il padre accetta la ribellione del figlio e divide in due le sue sostanze, anzi «soprattutto se stesso». Se però da parte del padre non c’è nessuna intransigente opposizione nel nome della Legge, non c’è neppure l’appiccicosa e fatua complicità di chi vuol compiere le stesse bravate del figlio. Il padre prende sul serio l’esigenza della libertà del figlio di provare se stesso ma rimane padre, non si trasforma in amico, e così rimane ancora fedele al suo ruolo di “ostacolo”. E proprio di questo il figlio ha bisogno, perché «non si può essere figli giusti se si rinnega il padre».
Eccoci al punto. Secondo Recalcati il dramma specifico dei nostri giorni consiste nel fatto che «i nostri figli vivono il dramma del vuoto della Legge», una nuova specie di smarrimento data dall’assenza di codici, valori stabili, punti di riferimento. Per questo, se il compito dei genitori è di «avere fede nel segreto incomprensibile del figlio», occorre essere consapevoli che questo compito sarà espletabile non sulla base dell’ideologia orizzontale del dialogo e dell’empatia, ma solo sulla base di una fede nell’Altro quale nuova legge della relazione umana.
Vito Mancuso, Repubblica 30 marzo 2017